Dentro e contro una Nuova Epoca Politica

Questo contributo è stato scritto nei giorni immediatamente precedenti il vigliacco sgombero di Làbas avvenuto martedì 8 agosto a Bologna.

Alcune ipotesi mi pare vengano confermate dall’istantanea resistenza e dalla potente campagna #riapriAMOLabas, altre rimangono domande aperte; in ogni caso, è la materialità della vita e dei suoi conflitti che verificherà se e cosa sia vero – e soprattutto utile – e cosa no.

Ci vediamo sabato 9 settembre a Bologna.

Beautiful troubles.

Negli ultimi anni abbiamo scritto poco, ma siamo andati a letto tardi.

Abbiamo dedicato molto tempo a cercare parole nuove e modi per dargli corpo, secondo il famoso test di Wittgestein per il quale una proposizione è vera se ne puoi fare almeno un esempio.

In ogni caso in tre anni non ci siamo mai fermati, se abbiamo fatto qualche pit stop è stata per la noiosa ossessione delle polizie – locali ed europee – ad arrestarci.

Abbiamo letto quasi tutto ciò che è stato pubblicato dalle compagne e dai compagni, abbiamo cercato di partecipare ad ogni evento politico, alcuni li abbiamo proposti.

Tutto ci è stato utile ed ogni donna ed uomo che con la propria vita si mette in movimento per cambiare il mondo, renderlo un posto migliore per sé e per gli altri, è nostro compagno e nostra compagna; contano poco le polemiche, i distinguo, le differenze che appaiono minuscole se viste dalla Luna.

Siamo una moltitudine di singolarità che lotta per la felicità, a tutte e tutti va la nostra stima politica, il nostro affetto più sincero, la nostra incondizionata solidarietà.

A volte non sappiamo dirci quanto ci amiamo. Non è solo un limite, è una maledizione. Dobbiamo essere capaci di amarci, di dirci che ci amiamo, che dalla nostra parte non ci può essere alcuna differenza che ipotechi la complicità più profonda.

Perché ogni rivoluzione comincia dall’identificazione di un nemico. E continua con un atto di amore per ogni donna ed uomo che lotta contro il comune nemico. Buona fortuna e buon lavoro.

Ogni cosa è mutata, mutata interamente: una terribile bellezza è nata (Yeats)

Per provare a far fronte alla Nuova Epoca Politica da alcuni anni abbiamo avviato un nuovo processo di ricerca nel nostro territorio, in questo tempo abbiamo scelto diverse scommesse, perché di questo è fatto un percorso, alcune sono andate molto bene, altre meno, in ogni caso esse hanno incrociato i rompicapi politici correnti.

Cominciamo condividendo cosa pensiamo del contesto in cui viviamo e capiremo che siamo stati anche troppo timidi nella ricerca di un salto di fase.

Un passo avanti per farne altri due.

 

Questa ipertrofia della finanza corrisponde infatti al passaggio dalla produzione di ricchezza centrata sullo sfruttamento della forza-lavoro manifatturiera e subordinata a livello salariale allo sfruttamento immediatamente sociale, globale e complesso della forza inventiva e dell’intelligenza collettiva in rete, ciò che chiamo la pollinizzazione umana dell’interazione. Questa nuova sfera dell’economia dei complessi immateriali (non codificabili in diritti di proprietà intellettuale) è mille volte più produttiva (in senso realmente economico) della vecchia sfera dell’economia politica. Questo nuovo continente di esternalità positive della cooperazione umana è oggetto di un’abile captazione da parte di ciò che denomino il capitalismo cognitivo, il quale deve creare delle piattaforme di pollinizzazione (le reti sociali, i motori di ricerca, il cloud) per rivelare gli immateriali più profittevoli ed estrarre (data mining, data mapping) l’intelligenza, l’innovazione. Se la ratio di 30/1 della finanza di mercato pone un problema evidente (che finisce con lo sbattere contro il muro, se non si prolunga attraverso una gigantesca piramide di Ponzi come nella speculazione immobiliare), la ratio di 30/100 non pone alcun problema. In linea con ciò che la comprensione della creazione monetaria ci insegna già da molto tempo. Il problema della denuncia della nocività della finanza non è il suo moralismo (le buone intenzioni contano più del cinismo spesso delittuoso o persino criminale) ma il suo lato arretrato e del tutto reazionario: non avendo compreso la mutazione del capitalismo e dell’economia tout court, si aggrappa alla vecchia ratio prudenziale e all’industria, ritenuta rispecchiare senza menzogne la realtà. In quanto, per questa vulgata, la ricchezza non si crea che nella trasformazione della materia, che nella produzione; la circolazione, l’immateriale, invece, non sono che delle pericolose illusioni, delle droghe. (YMB)

Quando Marx cominciò i suoi studi sul Capitalismo rileggendo i classici, ed in particolare gli studi di Ricardo sulla legge del valore-lavoro, si pose l’obbiettivo di “spiegare per cambiare”.

Il suo obbiettivo non era di tipo sociologico, ma economico-politico, ovvero di scrivere una critica dell’economia politica tale da poter dare una base scientifica alla messa in discussione del capitalismo; Marx cercò di fondare scientificamente la sua scelta di vita di stare dalla parte degli sfruttati, al tempo la classe operaia.

Così una teoria del valore divenne una teoria sul plusvalore, uno studio sulla composizione organica del capitale si sviluppò in una teoria sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, in altre parole una predizione scientifica delle condizioni per la rivoluzione.

Fino a pochi decenni fa, la stragrande maggioranza della sinistra neppure conosceva i Grundrisse ed il marxismo era egemonizzato da una lettura forzosamente oggettiva del pensiero marxiano senza considerarlo come teoria della crisi dei movimenti di capitale; parimenti, solo nel 1964 abbiamo avuto il Frammento sulle macchine che ha permesso una lettura eretica di quanto scritto 150 anni prima e che, pare di poter dire, rappresenta il (l’ultimo) ponte ideale per traghettare le intuizioni e la metodologia marxiana in un mondo che Marx non avrebbe potuto prevedere.

Non si può attribuire a Marx la facoltà di immaginare il futuro, non si può chiedere a Marx di avere predetto l’industria 4.0: si può però utilizzare Marx, per andare oltre Marx.

Una difficoltà cronica che affrontiamo è quella di riuscire a leggere la realtà con occhiali che guardando la realtà contemporanea ci permettano di vedere il futuro, evitando la pigrizia di forzare il presente a combaciare con predizioni del passato, come se fossero verità rivelate o, peggio, leggi di natura cui obbedire. Così come l’ingiustizia, la disuguaglianza, la mancanza di democrazia sono le coordinate del presente, come lo erano nella fumosa Londra di Dickens, non è vero che una teoria della rivoluzione debba ripercorrere modelli del passato adatti a condizioni materiali – e desideri di liberazione – storicamente determinati ed ampiamente superati.

Nel superbo decennio italiano 68-77 si fu liberi di pensare la rivoluzione senza attualizzare la Resistenza; noi non possiamo pensare il 2020 riproducendo il ‘77; è giusto dirselo per evitare decontestualizzazioni grottesche o il loro uso da parte del potere come sta avvenendo nei quotidiani nazionali, nei quali i nuovi militanti vengono immediatamente incasellati in un’altra epoca storica.

Gli studi marxiani ci aiutano a capire lo stato di sussunzione reale della vita al capitale, che è la condizione oggettiva di riproduzione della vita nella quotidianità, cioè lo stadio di sviluppo più avanzato del capitalismo, nel quale la forma vita è già interna alla forma sociale del capitalismo. Non siamo più piegati alle regole del capitale: siamo creati, formati, strutturati dentro un rapporto di capitale[1]. Non c’è un fuori dal rapporto di capitale; c’è solo un dentro.

Il capitalismo non è solo un modello di funzionamento dell’economia; è un rapporto sociale che in-forma la società intera. Marx fu molto chiaro su questo[2] e fu molto esplicito nel darne dignità storica, riconoscendo la sua capacità gigantesca di costruire società.

Il suo stato più maturo è il capitalismo finanziario, ultimo gradino del ciclo lungo[3] iniziato con il superamento degli accordi di Bretton Woods, e nulla fa pensare che, come predisse Hilferding[4], in esso vi siano le condizioni interne per la transizione al socialismo; anzi, il capitalismo finanziario ha l’enorme potere si scindere la sua valorizzazione dal lavoro – superando in questo la necessità redistributive dei cicli lunghi precedenti -, di fluire nei territori legibus soluto, di essersi esteso all’intera vita sociale superando i confini tanto del tempo quanto del luogo di lavoro; il capitalismo, infine, è riuscito a fare accumulazione originaria del futuro, perché questo è lo stadio antropologico dell’Uomo Indebitato, l’appropriazione del lavoro sociale futuro in ragione dell’accumulazione privata, e della quotidianità relazionale, perché questo alla fine è ciò che significa la produttività dei cliks negli spazi pubblici – ma privati – sociali.

La battaglia per l’estensione della valorizzazione alle esternalità, di cui molto ha parlato Moulier-Boutang, è continua e senza sosta nuovi spazi e nuove risorse sono soggiogate alla relazione di capitale.

Nella sussunzione reale della vita al capitalismo finanziario sparisce la teoria del cambiamento perché non vi sono modelli societari di alternativa materiale praticabili e convincenti; sparisce l’utopia concreta della liberazione dal capitale e di una società di liberi ed uguali. Sparisce lo spazio politico della teoria leniniana di avanguardia esterna alla classe[5] – su questo torneremo più avanti -, se è vero che ancora oggi è il lavoro sociale la sorgente della ricchezza, è davvero difficile pensare che sia il lavoro la fonte della nostra utopia[6].

Oggi gli unici pensieri lunghi ed organici anticapitalisti sono quelli religiosi monoteisti; essi sono metafisici, contrappongono teoria a teoria, promessa a promessa, morte a morte mentre manchiamo di un pensiero lungo che aggiorni la tradizione materialistica al contemporaneo e che esprima la potenza costituente del divenire.

Se poi evitiamo l’errore di Engels[7], e guardiamo un po’ più in là dei nostri confini, scopriamo che vi sono forme di capitalismo del tutto diverse, incongruenti, tra loro conflittuali, potenzialmente in guerra tra loro anche se accomunate dalla riduzione della democrazia. Come possiamo descrivere il connubio tra stato e capitale, partito e sfruttamento che vi è in Cina? O quale dizionario politico possiamo adoperare per la relazione perversa tra teocrazie islamiche e capitalismo[8]?

Se guardiamo i saggi di profitto dei mercati, essi sono straordinari, e nei movimenti di crisi non vengono meno, ma trovano in essi, in ciò che producono, occasioni utili per ristrutturarsi.

Da qualunque punto di vista siamo di fronte ad una epocale nuova fase politica, che non si è ancora definita in modo completo e compiuto, nella quale diverse forze si contendono l’assetto di nuovo equilibrio.

Noi dobbiamo cambiare per essere all’altezza di questo scontro che avrà tempi lunghi, campo di gioco globale, a cui dobbiamo contrapporre un pensiero di lungo periodo, un piano e voglia di vincere.

La politicizzazione della società, il progetto no border, la militante politica, la potenza dell’assemblea.

Consideriamo il tema dei processi migratori, che per vastità e profondità è tale da caratterizzare l’era del capitalismo finanziario ed i suoi movimenti di crisi, perché è del tutto evidente che vi è una profonda connessione tra crisi alimentare, ambientale, economica e spinte migratorie. Noi crediamo che su questa enorme movimentazione di persone ci sia la possibilità di decostruire l’ordine capitalistico e di costruire nuova società. Non solo, ma se osserviamo i cicli di lotte locali, in particolare sulla casa e del sindacalismo sociale, vi è una relazione tra intervento politico e stratificazione dei cicli di migrazione.

Negli ultimi anni le migrazioni hanno messo in discussione lo statuto delle frontiere europee, interne ed esterne, e della cittadinanza, hanno movimentato centinaia di migliaia di europei in processi di solidarietà militante, in ultimo hanno persino aperto un nuovo spazio politico per il ruolo delle ONG nel Canale di Sicilia, ben diverso da quello che alcune ebbero come agenzie embedded agli eserciti nelle guerre per l’”esportazione della democrazia”.

A noi pare che questa sfida epocale sia tutta politica e che vada politicizzata fino in fondo con un doppio movimento. Il primo è no border ovvero la costituzione della soggettività sulla nemicità al confine, sia esso continentale o nazionale; ogni confine ci è nemico, ogni frontiera va superata, ogni carcere etnico ed ogni dispositivo di limite al diritto a migrare va combattuto. Lo spirito no border unisce come tratto di continuità ogni campeggio, corteo, evento politico di solidarietà ed è un tratto distintivo della nuova generazione politica, in esso vi troviamo un elemento programmatico fondamentale per i prossimi anni che ci obbliga alla transnazionalizzazione dell’agire politico.

Come si farebbe infatti a localizzare il desiderio di migrare? Come si fa a nazionalizzare la battaglia per il permesso di soggiorno europeo?

L’altro movimento è nel supporto ai processi migratori, nel quale abbiamo riqualificato la relazione tra conflitto e costruzione di altra società, dentro e contro il rapporto di capitale. Nei nostri spazi le energie impiegate nell’accoglienza degna dei migranti sono moltissime, dalle scuole di italiano ai dormitori, dagli sportelli sul lavoro e sulla casa a quelli per i documenti arrivando alle polisportive; centinaia di donne ed uomini si attivano quotidianamente negli spazi sociali con attività che saremmo miopi a chiamare “volontariato”, perché sono una nuova forma di attivismo politico in cui il conflitto, la costruzione dell’utopia, la pratica quotidiana si ibridano fino a delineare una nuova forma di militanza politica.

Nelle nostre riunioni parliamo di politicizzazione della società cioè di processi di soggettivazione che si attivano con chiamate ad agire concrete, specifiche, pubbliche, sull’attivismo sociale, e per un progetto politico no border; per noi questo è un nuovo stile di militanza, nel quale si sviluppa  un progetto radicalmente antagonista al potere costituito, che non separa più fare da dire, che non rimanda il conflitto alla retorica dell’evento.

Le città europee sono state il laboratorio di sviluppo di questa nuova forma della militanza che ha unito nella quotidianità Atene con Bologna, Francoforte con Milano, Barcellona con Palermo e ogni manifestazione ha trovato forza e leadership esattamente in questo processo di politicizzazione che a sua volta è la risultante politica di un doppio movimento. Se per un verso vi è la cooperazione politicamente attiva nelle reti di accoglienza degna dei migranti, dall’altro vi è un processo di ricombinazione di un segmento interessantissimo della composizione del lavoro. Spesso questi attivisti politici sono lavoratori e lavoratrici giovani, altamente scolarizzati, impiegati in cooperative – anche degli stessi appalti Sprar – che rinnovano il senso del proprio sapere-lavoro in attività sociali-politiche nei nostri spazi.

Il movimento no border per l’accoglienza degna ha fatto incrociare la più importante movimentazione di sempre contro le frontiere con il segmento più ricco di sapere e più devalorizzato nella precarietà del sistema cooperativo e su di esso si sono costituite reti di libere città per l’accoglienza senza avere un passaggio obbligato nella dimensione nazionale. Se analizziamo la composizione tecnica del lavoro sociale nell’accoglienza degna troviamo precari con master in Diritti umani, laureati in Scienze della Formazione, Lingue, Giurisprudenza, spesso brutalizzati nello sfruttamento delle cooperative. Allo stesso tempo, come abbiamo cercato di dire, i processi politici che abbiamo sviluppato ci permettono di superare la separazione frontale tra militante e cooperante e tra conflitto ed evento.

Ritenere nel 2017 che il conflitto si eserciti solo per eventi organizzati clandestinamente alla società è, nel migliore dei casi, arte dello spettacolo per Local Team senza la raffinatezza di Debord.

Facciamo un passo avanti ed affrontiamo il tema dell’organizzazione. Noi crediamo che questa composizione politica si organizzi in forma orizzontale, con metodologia processuale, con assemblee, eliminando la separazione tra soggettività e rete sociale. La potenza politica, la decisione, l’esercizio della scelta, il dizionario della proposta si costruiscono solo ed esclusivamente con un fecondo processo assembleare.

Abbiamo nel DNA l’insopportabilità delle organizzazioni novecentesche sia partitiche che sindacali, ma stiamo parlando di qualcosa di nuovo anche per noi e che ci ha portato oltre l’espressività politica  automa che recitava “alla classe la strategia, al partito la tattica”, perché se è vero che la nuova forma della militanza ibrida il politico nel sociale e la sua composizione tecnica è ricca di sapere, allora deve esaurirsi lo spazio differenziale tra soggettività e rete sociale ed il potere viene dalle assemblee. Così è da noi, così è ovunque vi siano nuovi movimenti che affrontano il mondo presente e reale, con occhiali dalle lenti pulite, così ci hanno insegnato i movimenti di donne.

Nell’era della sussunzione reale della vita al capitale, l’intera società è una fabbrica connessa di singolarità ricche di sapere, di capacità connettive e di insoddisfazione. La rete è la fabbrica del moderno, ‘che non può essere messa a tacere e dispersa’. L’orizzontalità del processo produttivo e cooperativo è l’antitesi alla gerarchia della rendita, come l’assemblea è l’antitesi al sequestro della democrazia, come la produzione autonoma è l’antitesi alla rendita.

Se volessimo ancora usare Marx oltre Marx potremmo applicare il Frammento alla Rete: “Il processo produttivo ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo trascenda e lo comprenda come l’unità che lo domina. Esso, il lavoro, appare invece solo come organo cosciente in vari punti del sistema meccanico nella forma di singoli operai vivi; disperso, sussunto sotto il processo complessivo del macchinario, esso stesso solo un membro, un anello del sistema, la cui unità non esiste negli operai vivi, ma nel macchinario vivente (attivo), che appare di fronte all’operaio come un possente organismo rispetto alla sua attività singola e insignificante”.

L’attualità di questo visionario Marx sta nell’espressione macchinario vivente cioè nella prefigurazione di una macchina in cui lavoro vivo e lavoro morto sono talmente ibridati da essere un cyborg. Quanta ipocrisia c’è nella narrazione dell’Industria 4.0, tesa a rappresentare una fabbrica che funziona senza operai, quando invece c’è un enorme quantità di lavoro vivo nella progettazione dell’impianto, nel controllo, nella manutenzione, nella logistica, nella scrittura del software: non esiste nessuna ricchezza senza il lavoro che la crea.

Gli spazi sociali in cui rilanciamo la nostra militanza sono cambiati perché sono diventati fino in fondo #centrisociali, luoghi comuni in cui una nuova produttività sociale del lavoro si esprime connettendo competenze, tempi, saperi, capacità organizzative per la produzione di nuova società, dentro e contro i movimenti di crisi del capitalismo. Da questo punto di vista gli spazi sono Isole di un mondo che c’è e che può diventare molto più ampio di quanto possa sembrare, molto più potente di quanto lo è stato finora se siamo capaci di raccontarlo efficacemente.

A noi pare che abbiamo sbagliato ad utilizzare la metafora della scrittura in rete del kernel di Linux per descrivere la potenza creativa della società in rete; era del tutto più utile ed efficace guadare i nostri spazi e capirli fino in fondo.

In questi giorni vi è stato un larghissimo dissenso contro lo sgombero di Làbas; la ragione fondamentale credo stia nel fatto che Làbas è una potente macchina di welfare e di libertà dentro e contro la città della speculazione e della rendita. Allo stesso modo la campagna per la sua difesa è specifica, ma è un’occasione di convergenza per molti.

La narrazione sulla rigenerazione urbana può essere utile, ma è scivolosa perché contiene la fascinazione del ghetto, della marginalizzazione, della tolleranza per stili di vita alternativi, magari prodromi della gentrificazione. Noi invece vediamo nella produzione sociale autonoma e nel mutualismo l’esemplarità di una nuova società, così come nei conflitti – spesso asprissimi – per la difesa e l’ampliamento delle nostre zone autonome la costruzione di un contropotere municipale che è fecondo anche per altri campi di lavoro politico.

Non è poco, è moltissimo, #riapriAMOLabas lo testimonia.

Municipi politici.

Un’altra scommessa l’abbiamo fatta sulle città come spazio dell’agire politico. Nella storia dei movimenti sociali i conflitti urbani sono sempre stati centrali, noi però stiamo parlando della riattualizzazione dei processi municipalisti, nei quali si possono incrociare virtuosamente processualità sociali e l’uso politico della rappresentanza locale per costruire coalizioni che ambiscono a governare i municipi.

Abbiamo cercato di rendere semplice un dibattito viziato ed inattuale: votare non significa non lottare. Nella contemporaneità l’espressività del politico è multilivello e non binaria, non euclidea, non lineare: dove c’è spazio per spostare equilibri lì si agisce, dove ci sono spazi per sovvertire o accumulare forza li si opera, senza farsi limitare da schemi stantii e castranti.

Non serve qui fare il breviario di una nuova storia che sta interessando sempre più città europee, ci piace però ricordare che portiamo la maternità della forma-Coalizione civica, che siamo felici della sua inflattività, del consenso trasversale che ha avuto negli ultimi mesi, ma è importante condividere alcuni rischi.

Il valore d’uso della Coalizione sta nella sua vocazione di governo, nella sua capacità di essere porosa ed utile alla società ed ai suoi movimenti dal basso verso l’alto; laddove la Coalizione divenga sterile rappresentanza perde la sua capacità espressiva.

Il municipalismo non è civismo, non è odio qualunquista per le forme della politica, non è il ponte per il non luogo dell’assenza dell’organizzazione, è invece un laboratorio politico locale in cui il basso tesse le sue fila per ambire a governare.

In ultimo, non ha senso politico separare la Coalizione dal tessuto locale, dal suo rapporto con le forme di vita, di società, di produzione, dagli accumuli di esperienza municipali per farle fare un salto di scala verticale in virtù di mai dimostrato principio per il quale la crescita di un processo politico debba essere verticale e non laterale ed orizzontale.

Cosa intendiamo dire? Che lo sviluppo del municipalismo può darsi – e lavoreremo affinché avvenga – nelle relazioni organizzate di diplomazia e cooperazione inter-municipali e non per via obbligata nella proiezione nazionale. La storia d’Europa è una storia di Municipi, di federazioni di municipi, di relazione complesse tra lotte per l’autonomia e la sovranità centrale (imperiale, reale, nazionale).

L’ambizione di connettere il nostro Liber Paradisus (since 1256) con l’autonomia catalana e Kobane è enormemente più affascinante della nazionalizzazione delle coalizioni.

Un contro-movimento alla crisi della democrazia del capitalismo finanziario è stato il ritorno in auge della sovranità e, peggio, delle offerte politiche sovraniste che hanno, da sinistra e da destra, lo stesso vizio di proposta: la ricostruzione di identità nazionali, e dei relativi confini, come inattuali ed inefficaci barriere alla globalità dell’attacco alla democrazia. La risposta è sbagliata e molto pericolosa, ma il tema della lotta per la democrazia contro la teocrazia degli hedge funds c’è tutto.

Nel primo Medioevo – era ingiustamente bistrattata dagli storici modernisti – le città negoziarono la propria autonomia, costruirono le proprie regole comuni, divennero spazi in cui, con l’arrivo del Rinascimento, si respirò libertà.

Non ha ovviamente senso politico giocare con una storia di oltre mille anni fa, peraltro non idilliaca, ma piena di contraddizioni, ma ci preme segnalare che così come il Capitalismo ha una storia brevissima di meno di trecento anni, così non è vero che lo sviluppo delle istituzioni debba seguire la linearità degli stati nazionali: perché non pensiamo allo sviluppo delle autonomie locali ed al foedus tra esse?

Si badi che la dialettica asprissima tra campagna e città ha sempre qualificato la storia d’Europa -quante volte le insurrezioni cittadine sono state massacrate da contro-movimenti reazionari delle campagne? – è tornata maledettamente attuale. Nei movimenti di crisi in corso da dieci anni, le campagne sono spesso state decisive per spostare l’equilibrio politico verso la conservazione e la reazione regressiva, e se guardiamo la geografia delle preferenze politiche in Germania, Italia, Francia e Spagna, la densità di reazione sovranista nelle campagne è netta.

Non possiamo e non vogliamo dire città contro campagna, ma è evidente che c’è un ricorso storico

tra tensione alla libertà municipale e vandeismo extra moenia.

Divenire non rimanere.

In questi giorni, sedici anni fa, ci scontravamo nelle vie di Genova. In quella dura battaglia si fronteggiarono due opzioni politiche, entrambe olistiche e globali – come si rappresentò il 15 febbraio 2003, cento milioni di donne ed uomini in piazza, dal Canada all’Australia -, la nostra ha perso.

Cosa ci insegna quel ciclo di lotte? La necessità di essere all’altezza della sfida, di guardare negli occhi il nemico, di costruire un consenso almeno pari al suo. La scommessa di Genova era in fondo questa, salvare la globalizzazione dal capitalismo, contrapporre alla sua visione distruttiva ed infelice, un futuro di nuova democrazia e di nuovi diritti in un approccio globale ed antinazionale.

L’asfalto di Amburgo ha dimostrato – non era necessario ma fa bene avere delle conferme – che la felice combinazione di determinazione e composizione dei movimenti urbani, sinistra politica e sindacale ed accumuli di resistenze può fronteggiare la celebrazione del potere.

Non abbiamo vinto nulla, ma abbiamo tenuta aperta una porta.

Siamo senza – e sentiamo la mancanza – di un campo di ricerca forte che sia qualitativamente adeguato a pensare l’alternativa, nel frattempo continuiamo a costruire nei nostri territori.

In ultimo ma non per ultimo: se il progetto locale è la camera municipale dell’espressione politica, questo significa che non esiste lo spazio per una proposta politica continentale o nazionale? No, ovviamente; vuol dire che non può essere ricavata per fecondazione in vitro dalle esperienze municipali, ma che può trovare in esse un fecondo esempio.

È stupido dire che non servirebbe come il pane una proposta ambiziosa che reinventi l’offerta elettorale e che costruisca un progetto anticapitalista non episodico e non vocato alla marginalità della rappresentanza del passato. A guardare le forze in campo viene da ritenerlo davvero difficile e la stupidità con la quale ci si è innamorati della ragione populista – decontestualizzandola e copiandola – è disarmante.

Non si deve mai abdicare ad un leader, ma ci si costruisce l’espressività politica di una leadership democratica – sono cose diverse -; si è parte di una moltitudine di singolarità che lottano per la propria felicità, senza essere l’astrazione di un significante vuoto – di nuovo, sono cose diverse.

I segreti sono bugie; Condividere è prendersi cura; La privacy è un furto

(I Principi del Cerchio)

[…] individualmente voi non sapete quello che fate collettivamente.

Il curioso paradosso è che credi di essere al centro delle cose, e che questo renda più valide le tue opinioni,

mentre tu, personalmente, stai diventando meno vivace e meno vitale

(Eggers)

Lo spazio c’è tutto, le condizioni sono la costruzione di un progetto che definisca la missione e che sia radicato nella contemporaneità di una società connessa di individui reticolari.

Forse abbiamo investito poco tempo nella ricerca dei nuovi modi di organizzarsi sulla rete, se questo è lo spazio pubblico dove miliardi di donne ed uomini si incontrano, cooperano, lavorano, ricevono ordini, si scambiano emozioni, vivono, dobbiamo studiare e sperimentare come essere molto più adeguati al nuovo spazio pubblico, reticolare e sulla rete.

Oggi il tempo che passiamo sui socials è pari al doppio di quello che trascorriamo a mangiare e bere.

Se siamo connessi in una infosfera in cui la produzione di opinione e di consenso è determinante per il governo dell’intelligenza collettiva, dobbiamo attrezzarci per combattere su questo terreno, provando ad utilizzare le piattaforme digitali come tecnologie biopolitiche di costruzione della resistenza e del contro potere.

È stata fatta troppa ideologizzazione dell’infrastruttura di rete, che talvolta è stata descritta come un dispositivo di liberazione dal lavoro salariato o, simmetricamente, come una camera di tortura; essa è invece la traduzione digitale della relazione di capitale, come il nuovo telaio studiato da Engels nel 1845 a Manchester e pertanto è uno (lo) spazio ambivalente della relazione tra classe e capitale.

Non siamo convinti che la qualità estrattiva del capitalismo finanziario presuma un’assenza di relazione con il lavoro-sociale, bensì vi è una continua relazione di potere tra comando e produzione, la biopolitica è un campo di relazione – e quindi di conflitto – tra tensione all’espropriazione di valore e, dall’altro lato, ricerca di autonomia, autovalorizzazione, sottrazione.

Il capitalismo non è parassitario, ma produttivo ed attivo, è immerso nella società che produce, non può autonomizzarsi dalla forma-vita che è e rimarrà per sempre la fonte della ricchezza.

Se l’estrazione significasse esternità, l’azione politica sarebbe incanalata nel binario “il comunismo e la guerra” e la tattica sarebbe costellata di eventi insurrezionali; al contrario, nella nostra interpretazione della relazione tra movimenti di capitale e lavoro-vita sociale, vi è una dialettica continua e, conseguentemente, un progredire processuale dei processi di liberazione, dentro e contro il capitalismo, con un accumulo di resistenze, di saperi delle lotte, di progetto dal basso della società di liberi ed eguali.

I nuovi agitatori sociali non sono da cercarsi solo tra gli sviluppatori software, ma potenzialmente in tutta l’intelligenza collettiva[9] la cui creatività è prodotta- per- il -lavoro nella fase di sussunzione reale, e che, nella sua riproduzione contestuale alla sua valorizzazione, trova la forza della propria liberazione.

Torniamo ancora alla radice, cioè la materialità della composizione di classe. Essa è composta di singolarità connesse, il cui dato di cambiamento più straordinario è la messa al lavoro “salariato” di moltissime donne, fatto senza precedenti nella storia umana e talmente influente che ha trasformato la forma-lavoro anche per chi donna non è.

La nuova proletariata è donna, il lavoro è femminilizzato, quindi l’organizzazione ed il dizionario della politica devono femminilizzarsi. Quando parliamo di femminilizzazione della politica ci riferiamo al cambiamento decisivo che deve avvenire anche – ancor di più – tra di noi e che deve tradursi in fatti concreti, sia negli stili di leadership che nelle forma-organizzazione. Se ricordiamo quanto scritto prima sul potere dell’assemblea, troviamo qui la convergenza che la quotidianità ci suggerisce: orizzontalità e convergenza, processualità democratica e consenso, relazioni e conflitto, linguaggio e connettività sono le coordinate di riferimento.

Il ciclo no global trovò una relazione decisiva con lo zapatismo, che ci aiutò ad uscire dai retaggi terzomondisti ed emmelle e ci fornì le pratiche teoriche della nuova semiotica rivoluzionaria (nonostante/grazie a i passamontagna) e della nuova democrazia (nonostante/grazie a l’EZLN fosse un esercito); ora la rivoluzione di Rojava ci fornisce il laboratorio di ricerca dell’ecologia, del municipalismo, del femminismo, del processo democratico.

La femminilizzazione della politica è già in corso e gli straordinari movimenti di donne che abbiamo visto quest’anno sono di profonda ispirazione per il nostro rinnovamento e, nel combinato disposto con i movimenti migratori, costituiscono un paradigma.

Dopo anni in cui abbiamo discusso di come si rende reale la potente metafora dello sciopero sociale transnazionale, l’8 marzo 2017 lo abbiamo praticato.

Nello scorso secolo si è discusso a lungo del “chi siamo” per risolvere la madre delle questioni, “che fare?”. Forse la risposta nel XXI secolo si trova uscendo dal vicolo cieco dell’identità fissa e perimetrata e diventando fluide, mobili, capaci di connetterci in molti processi, in molti modi, su mille piani, sperimentando una politica queer.

Rinnoviamo il guardaroba, apriamo le finestre, aggiorniamo i nostri smartphones, c’è una Nuova Epoca Politica nella quale lottare.

GMDP

Bologna, estate 2017

[1]    Questo vale per le nostre vite, non vale ovviamente per i nuovi 800 milioni di uomini e donne che negli ultimi vent’anni la globalizzazione ha trasformato in operai con un salario medio di 13 dollari e che ora stanno operando un contro-movimento che rende non più conveniente delocalizzare la produzione.

[2]    “La produzione capitalistica […] è estremamente parsimoniosa di lavoro materializzato, oggettivato in merci. Essa è, invece, molto più di ogni altro modo di produzione, una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue ma anche di nervi e di cervelli.”

[3]    La crisi in corso può essere analizzata come l’Autunno del ciclo lungo dell’Era dell’informatica e delle telecomunicazioni identificato da Kontradiev.

[4]    “In forza di tale rapporto il capitale assume la forma di capitale finanziario che rappresenta la sua più alta e più astratta forma fenomenica”

[5]    “La tendenza nei circoli marxisti, e non solo nei circoli marxisti ma nella sinistra in generale, consiste nel privilegiare i lavoratori dell’industria. Questa idea di una lotta di avanguardia che conduce a una nuova società è in circolazione da un certo tempo. Tuttavia, quella che è affascinante è l’assenza di alternative a questa visione, o almeno di varianti del suo intento e proposito. Naturalmente molto di questo proviene dal volume I del Capitale di Marx che enfatizza il lavoratore di fabbrica. Questa idea che il partito d’avanguardia dei lavoratori ci porterà nella nuova Terra Promessa dell’anticapitalismo, chiamiamola una società “comunista” è stata persistente per più un centinaio d’anni. Ho sempre sentito che si trattava di una concezione troppo limitata di chi è il proletariato e di chi è l’”avanguardia”. (Harvey)

[6]    Non ci riferiamo al “lavoro per sé” di Andrè Gorz, ci riferiamo all’accezione capitalistica del “lavoro” perché “Non sempre il lavoro è esistito nel significato in cui lo intendiamo noi oggi: esso apparve con i capitalisti e i proletari. Da questa comprensione deriva che “Travaille” (che, come si sa, deriva da tripalium, congegno a tre piedi il cui azionamento metteva l’operatore alla tortura) oggi sta praticamente ad indicare un’attività salariata. I termini ‘lavoro’ e‘impiego’ sono diventati intercambiabili…”

[7]    Engels, compagno di una vita, fece degli studi sulla condizione operaia in Inghilterra; li fece talmente militanti che si sbagliò nella lettura della composizione politica di classe perché, grazie all’aiuto della compagna, frequentò solo la parte militante degli operai professionali e confuse la loro soggettiva espulsione dalle fabbriche con una più generale deprofessionalizzazione dell’unità produttive, mentre l’introduzione massiva del nuovo telaio -innovazione di processo- richiedeva proprio nuove professionalità operaie.

[8]    Molto di ciò che accade è da analizzarsi con la nuova divisione internazionale del lavoro e con i rapporti tra poli continentali e relazioni con la sfera del capitalismo finanziario. Noi ci concentriamo sul nostro territorio, ma è evidente che dovremmo dedicare molte energie allo studio delle condizioni tecniche e politiche delle altre aree continentali.

[9]    L’intelligenza collettiva non è confinata nelle scuole ed università, C’è tantissimo sapere nei volontari politici dell’accoglienza degna, nei contadini che inventano nuovi modi per la coltivazione biodinamica, nelle badanti che accudiscono gli anziani valorizzando la propria affettività e relazionalità. Usando parole di altri, l’intelligenza collettiva è diffusa ed è la condizione d’essere di tutta l’operaietà.