The Power of Assemblage
Tre ipotesi a partire e oltre il G20 di Amburgo.
Che il G20 di Amburgo sia stato un vertice storico non c’è dubbio. Tuttavia, non per i risultati del summit ufficiale: la ben assortita parata di mostri – da Erdogan a Trump, da Putin alla Merkel – si è conclusa senza alcuna decisione rilevante. Lo stato di emergenza permanente che connota la sfera della sovranità politica e la crisi come paradigma economico non ammettono l’elaborazione di prospettive di lungo periodo. Piuttosto, è stata la marea ribelle che ha animato Amburgo ad aver conquistato il diritto a manifestare ed esprimere un dissenso radicale: la passerella si è da subito trasformata in un campo di battaglia tra la moltitudine ammutinata e l’impressionante dispositivo securitario messo in campo.
La cronaca di queste intense giornate è nota. Come ogni evento, non è facile dire quale sia l’orizzonte di senso che a partire da esso si apra proprio per la densità delle vicende e per la potenza che queste hanno espresso. Il rischio è quello di ridurre tutto alla singolarità del momento o di imbrigliarlo in una logica predefinita. Il G20 di Amburgo non è stato né l’uno né l’altro. Sicuramente la specificità del contesto – la città di Amburgo e la vivacità della società tedesca degli ultimi anni – ha avuto un ruolo determinante. Nessuno però avrebbe potuto dire in partenza come sarebbe andata. Anzi, in generale aleggiava un certo scetticismo rispetto all’opportunità di mettere ancora in campo percorsi di mobilitazione in occasione di un grande summit internazionale. “Am Ende entscheidet die Strasse”, alla fine è la strada a decidere. Quali indicazioni generali possiamo dunque cogliere a partire dal G20 di Amburgo? Quali sono quegli elementi non contingenti ma trasversali? Cosa rimane come terreno di pratica politica da percorrere oltre il summit? Tre sono le ipotesi che avanziamo.
Prima ipotesi: la dimensione urbana della produzione di resistenze.
La specificità di Amburgo è ben nota, una città ricca di occupazioni, spazi sociali, progetti di solidarietà e cooperazione dal basso. La dimensione del consenso rispetto alle proteste anti G20 è stata fortemente palpabile. Ovunque si potevano leggere cartelli di sostegno ai manifestanti e di rifiuto del summit, frutto sia della particolarità della città che del lavoro politico preparatorio messo in campo dalle diverse realtà tedesche. Anche quando i residenti di Amburgo si sono dati da fare la domenica mattina per risistemare le strade dopo le proteste non lo hanno mai fatto in opposizione alle manifestazioni dei giorni precedenti, semmai in supporto. Eppure Amburgo non ha espresso semplicemente una specificità territoriale, piuttosto ha rivelato in pieno il carattere globale della città contemporanea: non un luogo chiuso ma uno spazio aperto, attraversato da flussi e dunque immediatamente connesso ad una rete di dinamiche extra-cittadine. La dimensione urbana si è dunque mostrata come luogo di incontro fra corpi, produzione di alleanze, sperimentazione di pratiche politiche. Non a caso la polizia tedesca ha cercato in tutti i modi di immobilizzare i flussi, perimetrare gli spazi, spezzare le connessioni tramite una para-militarizzazione dello spazio pubblico che ha sganciato nettamente l’uso della forza da qualsiasi legittimazione del diritto. Da qui ne è nata una lotta per i flussi dello spazio urbano: alle zone rosse e blu, che delimitavano l’accesso ai luoghi del summit e sancivano il divieto di manifestare e radunarsi, hanno risposto i blocchi metropolitani del venerdì, che invece hanno violato le prescrizioni; alla pervasività dell’apparato di sicurezza ha fatto da contraltare l’imprevedibilità delle pratiche di sciopero sociale; alla paura e al terrorismo mediatico, messi in campo ben prima del vertice, si è opposta l’euforia collettiva dei manifestanti. Laddove si voleva spezzare, isolare, dividere si è generata cooperazione, solidarietà mentre i cosiddetti “grandi” erano confinati nei loro palazzi di vetro, il vero corpo estraneo rispetto alla città. La dimensione urbana sembra dunque rivelarsi come punto ottimale di incontro, scambio e alleanza. Non è forse un caso che proprio nelle città negli ultimi anni si siano sviluppate tante esperienze di accoglienza dal basso, mutualismo, neomunicipalismo, così come tentativi di regolamentazione degli spazi pubblici (decreti, ordinanze, fogli di via, gentrificazione).
Seconda ipotesi: l’esistenza di un terzo spazio.
Quello che è successo ad Amburgo ci testimonia che non tutto è riducibile alla terribile dicotomica alternanza tra il business as usual di matrice neoliberale e una prospettiva multipolare e neoconservatrice tra stati autoritari. Di più, è l’irruzione di una anomalia selvaggia che turba i sogni di chi pensava di aver eliminato qualsiasi voce di dissenso e di aver ricondotto tutto all’interno dei parametri della governance e della stabilità. Piuttosto la politica del rifiuto si è condensata in una moltitudine ammutinata che ha espresso tutta la sua potenza collettiva nella creatività del conflitto. Ognuno con i suoi metodi e sensibilità, nessuno in contrapposizione con l’altro. Si apre così un terzo spazio: non un soggetto, né un’identità o una forma organizzativa, bensì una superficie aperta di relazione che può essere attraversata da tutti (tanto dal precariato cognitivo quanto dal lumpenproletariat metropolitano) e che non appartiene a nessuno. Questo spazio di relazione e produzione di alleanze in continua mutazione si è dato attorno ad una serie di temi che negli ultimi anni sono stati centrali. Prima di tutto l’anti-capitalismo inteso come contrapposizione alle logiche del profitto e della competizione individualizzante, laddove invece si praticano esperienze di auto-organizzazione e mutualismo. L’aspirazione a un mondo senza confini, che si oppone al ritorno della dimensione nazionale del potere in nome di una solidarietà senza se e senza ma. Il rifiuto netto di un paradigma securitario tramite l’uso collettivo della forza: il riot metropolitano è stata la risposta dal basso allo stato d’eccezione proclamato dall’alto.
Terza ipotesi: queering politics.
Se esiste dunque un terzo spazio creatosi attorno ad istanze di emancipazione (dallo sfruttamento, dai confini, dalle ansie securitarie), occorre interrogarsi sul rapporto fra composizione sociale e organizzazione politica. Su questo occorre essere chiari: la partecipazione alle giornate di Amburgo ha ecceduto e sovrastato la capacità e la direzione delle realtà strutturate. Allo stesso tempo questo sancisce la fine della politica come organizzazione e il trionfo dello spontaneismo? No. Piuttosto cambia quello che è il ruolo delle soggettività politiche. Senza lo sforzo organizzativo per garantire il campeggio, i lavori del contro-summit, i blocchi del venerdì, la grande manifestazione di sabato, le cose sarebbero andate diversamente. Senza questi appuntamenti non si sarebbero create quelle condizioni di incontro all’interno delle quali si è potuta costruire un’alleanza dei corpi. Costruire spazi e occasioni di incontro non vuol dire determinarne l’esito, la processualità resta aperta. Femminilizzare la politica vuol dire quindi oltrepassare le identità predefinite, aprirsi all’altro, ricostituirsi all’interno di un fare in comune. Le assemblee – intese non come liturgia di “movimento” ma come momenti di incontro e cooperazione, nelle aule così come nelle strade – diventano dunque luogo di produzione soggettiva. Ogni traduzione è contingente: piuttosto che coagularsi attorno ad ipotesi complessive, la potenza moltitudinaria risulta di volta in volta attivabile in forme diverse e con obiettivi e composizioni differenti. La politica si fa queer. Non a caso in testa al corteo di sabato c’erano le realtà curde; il confederalismo democratico non ci invita forse a fare dell’orizzontalità e della partecipazione al di là dell’identità le basi di un modo diverso di stare insieme?
La centralità della dimensione urbana, l’esistenza di uno spazio sociale da attraversare senza pretendere di appropriarsene, l’esigenza di trasformare la politica in una processualità aperta e non identitaria. Se queste sono le ipotesi di pratica politica che possiamo ricavare dalle giornate di Amburgo, allora molte sono le sfide che si aprono davanti a noi. Riconoscere il carattere cittadino di molte delle forme di resistenza e alternativa contemporanea non vuol dire rinchiudersi nel localismo. L’esigenza di costruire connessioni, flussi e diverse geografie diventa quanto mai impellente. Come costruire dei network senza perdere la dimensione materiale che rende gli spazi urbani luoghi di incontro e soggettivazione? L’esistenza di un terzo spazio non equivale ad una sua immediata traduzione in forme politiche. Se la rappresentanza come forma di equivalenza fra soggetti ed organizzazione è morta a tutti i livelli (partitico, sindacale, di movimento), come costruire nuove forme di partecipazione in cui poter esprimere tutta la potenza sociale che ad Amburgo abbiamo visto assumere la forma del conflitto ma che altrove ha le sembianze del mutualismo, dell’organizzazione dal basso, della cooperazione? Infine, come ripensare le stesse soggettività politiche all’interno di diverse processualità? Attorno a quali nodi poter agire per creare le condizioni di nuove alleanze, per l’assemblaggio di nuovi corpi collettivi? Tutte domande rispetto alle quali Amburgo non fornisce risposte ma apre campi di sperimentazione politica. Non serve a nulla guardare indietro ma occorre coraggio per lanciarsi in avanti. In ogni caso, alla fine saranno le strade a decidere.